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Storia di ieri. Tra modernismo e restaurazione. La vita musicale a Parma nel ventennuio fascista [ versione stampabile ]

 

 

 

di Marco Capra

Tra rari lampi di modernismo e una volontà crescente di restaurazione si compie quella parte emergente della vita musicale di Parma che nel ventennio fascista guadagna gli onori della cronaca. La vita musicale tuttavia si alimenta, a Parma come in ogni luogo, anche della presenza e del lavoro costante e sommerso di istituzioni, di associazioni e di singoli individui che di quella vita musicale costituiscono il tessuto connettivo e la garanzia di continuità. Il Conservatorio di musica, in primo luogo – l’istituzione musicale per antonomasia della città, dal 1918 intitolato ad Arrigo Boito, suo primo direttore, sia pure onorario – che negli anni in questione è sotto la direzione di Guglielmo Zuelli e poi di Luigi Ferrari Trecate. In quel periodo il Conservatorio controlla anche la Società dei Concerti, principale istituzione concertistica della città, e nel suo ambito annovera per un decennio la Scuola di Liuteria, prima istituzione del genere in Italia, fondata nel 1929 per iniziativa del podestà Mario Mantovani e affidata al vicentino Gaetano Sgarabotto. 

E al Conservatorio è indissolubilmente legata la figura di Arnaldo Furlotti sacerdote e compositore (1). Personalità singolare, ma non certo isolata, che presenta ovvie analogie con quella dei quasi coetanei Lorenzo Perosi e Licinio Refice, anch’essi sacerdoti e anch’essi impegnati in ugual misura nell’ambito di istituzioni musicali ecclesiastiche, nell’insegnamento e nella composizione. Come per i due più noti colleghi, anche per Furlotti l’attività di compositore si sviluppa nella ricerca di un accordo fra ambiti apparentemente inconciliabili, quali sembrano essere la musica propriamente sacra, nella quale si riverberano in modo più preciso e osservante le istanze del Movimento Ceciliano, e quella schiettamente teatrale (2), dove la scelta di argomenti religiosi non viene sentita in contrasto con un linguaggio e uno stile che invece risentono della più recente tradizione teatrale, sia pure con echi di quel mondo antico che rappresenta il loro supremo ideale di rinnovamento.

Infine, il tessuto che sostiene e alimenta la vita musicale dell’epoca nasce anche, e forse soprattutto, dall’intreccio di formazioni bandistiche, corali e orchestrali che costituisce il terreno nel quale si  sviluppa e mette radici la cultura musicale in senso autenticamente popolare. 

Al di fuori di quegli ambiti meno appariscenti e documentati, rispetto ai quali mantengono una posizione di volta in volta contigua o estranea, emergono gli episodi salienti, vale a dire quelli dei quali più facilmente si serba memoria e che inevitabilmente condizionano la visione complessiva dell’epoca e del contesto. A quella categoria senza dubbio appartiene, con tutta l’estemporaneità insita nella natura stessa del movimento, la parentesi futurista del 1923, quasi dodici anni dopo lo sbarco ufficiale in città che aveva visto schierati, il 21 giugno 1911 al Teatro Reinach, il padre del futurismo Filippo Tommaso Marinetti, i pittori Umberto Boccioni e Carlo Carrà, il poeta Aldo Palazzeschi e, in disparte, coloro che sarebbero diventati i due musicisti più insigni del futurismo italiano: Luigi Russolo e Francesco Balilla Pratella. A differenza di allora, quando la presenza dei due musicisti in realtà non lasciò una traccia significativa nel corso della serata, la musica avrebbe costituito il piatto forte della performance che si sarebbe svolta al Teatro Centrale il 14 maggio 1923, con il pianista e compositore triestino Silvio Mix (Micks in realtà) affiancato da Marinetti in veste di declamatore. 

Non è necessario addentrarsi nello svolgimento della serata, se non per l’accenno, attribuito a Marinetti, a un non meglio precisato «celeberrimo […] musicista futurista che insegna composizione» al Conservatorio di Parma (3). La dichiarazione suscitò all’epoca qualche sorpresa e anche oggi non è chiaro a chi volesse alludere Marinetti: tuttavia sembra ragionevole supporre che il riferimento fosse a Gian Francesco Malipiero, che in effetti fu docente di composizione a Parma dal 1921 al 1924; ma a patto, beninteso, che all’etichetta “futurista” si desse il mero significato di “modernista” (4), in linea, del resto, con una certa approssimazione e disinvoltura nelle attribuzioni e nelle qualifiche che era tipica degli stessi esponenti futuristi. 

Comunque fosse, proprio grazie a Malipiero ci possiamo addentrare nel vivo del dibattito musicale dell’epoca, seguendo i punti essenziali di una controversia in tre puntate che si svolge tra il 1921 e il 1922 e che, per certi versi, possiamo definire “parmigiana”. Malipiero, veneziano, in quegli anni professore di armonia, contrappunto e fuga e composizione al Conservatorio di Parma, pubblica alla fine del 1921 sulla rivista torinese «Il pianoforte» un intervento dedicato alla necessità di riformare i conservatori di musica: luoghi in cui, secondo Malipiero, «si respira ancora l’aria rarefatta dei reclusori, e l’allievo può vincere lo stato di apatia che lo domina, soltanto il giorno che lasciando la scuola ha la forza di dire a se stesso: devo dimenticare ciò che la scuola mi ha insegnato e cominciare oggi a studiare» (5).

Tra le ragioni che rendono necessaria la riforma, Malipiero sottolinea l’eccessiva importanza che nel corso degli studi viene riservata alla musica dell’Ottocento, con particolare riferimento a quella melodrammatica. L’argomento è particolarmente scottante: tanto è vero che già sul numero successivo della rivista appare una lettera aperta in cui Ildebrando Pizzetti – nato e formatosi a Parma, com’è risaputo, ma all’epoca direttore del Conservatorio di Firenze –, cogliendo della rifl essione del collega solo la provocazione anti-ottocentista, si erge a difensore del melodramma romantico, non senza eccessi sarcastici, quali l’invito al «povero amico» di recarsi in pellegrinaggio «d’espiazione e di amore» da Parma a Busseto per ottenere il perdono di Verdi (6)

Il terzo e ultimo atto della controversia si consuma sul numero seguente, con un’asciutta replica in cui Malipiero non solo contesta l’accusa di anti-ottocentismo sollevata da Pizzetti, ma accenna anche a un precedente e altrettanto significativo disaccordo fra i due datato 1913, quando, a Parigi, lui fu «vivamente impressionato dal Sacre du Printemps» di Stravinskij e Pizzetti, al contrario, ne fu disgustato (7)

Ci si è dilungati su questa controversia poiché il suo contenuto chiarisce come meglio non si potrebbe la situazione contraddittoria che vede due dei maggiori esponenti della nuova generazione di compositori italiani – oggi storiograficamente accomunati sotto l’etichetta di “generazione dell’Ottanta” – in rotta di collisione su due argomenti basilari: da una parte il ruolo e il valore dell’Ottocento musicale; dall’altra il giudizio su uno dei fenomeni d’avanguardia più significativi dell’epoca: lo Stravinskij fauve del Sacre, vale a dire quello Stravinskij che il futurismo qualificò  spesso e volentieri come futurista (8). Quella di Malipiero ePizzetti era la generazione di musicisti che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, si era messa in aperto contrasto con la più recente evoluzione popolare, e a loro dire commerciale, della musica melodrammatica italiana. 

I caratteri comuni erano la riscoperta della musica pre-ottocentesca, la feroce polemica anti-verista, l’attenzione per le esperienze maturate negli altri Paesi d’Europa, il disprezzo per il mestiere e la routine. Fin qui le analogie generali. Le diversità nascevano, come si è visto, nel dettaglio delle predilezioni e delle avversioni personali: Malipiero, tutto orientato alla riscoperta della grande stagione polifonica e teatrale degli esordi nonché sulle esperienze moderniste del primo Novecento; Pizzetti, più incline alla grande musica strumentale e a quella teatrale dell’Ottocento (con la solita eccezione del verismo, s’intende) e a un rinnovamento del linguaggio operistico che guardasse sia alle antiche forme del canto italiano, sia alle espressioni più aggiornate del teatro musicale francese. Tutt’intorno i segni di una crisi gestionale e creativa che affondava le radici nel secolo precedente, con la fine del sistema teatrale basato sulle peculiarità locali, tipico degli Stati preunitari. 

Anche a Parma, al di sotto delle dispute che contrapponevano Malipiero e Pizzetti, ma come effetto della stessa crisi generale, il teatro d’opera faceva le spese di quell’ormai cronica inadeguatezza strutturale e ideologica che in pochi decenni ne avrebbe decretato la fine come genere di spettacolo vitale e portatore di novità.

Allo stesso tempo si veniva esaurendo la funzione che l’impresa privata aveva svolto, in varie forme, nei primi quattro secoli di storia del teatro d’opera.

E anche a Parma, dopo decenni segnati dalla gestione di innumerevoli società di impresari (le più rilevanti: Ars Lyrica , Associazione Turistica “Pro Parma” , E.T.I. ), ci si sarebbe avviati nella seconda metà del secolo alla piena assunzione in carico della stagione teatrale da parte dell’Amministrazione Comunale.

In tale contesto la situazione del Teatro Regio non poteva che uniformarsi alla tendenza generale e i suoi programmi confermare l’inclinazione al consolidamento del “repertorio”, termine che identificava un numero ristretto di autori e titoli su cui basare gran parte della programmazione. Le novità, un tempo condizione essenziale per il teatro d’opera, cominciavano a essere eventi eccezionali. 

Tra  le eccezioni più rilevanti, ancorché veramente sporadiche, fu quel Teatro delle Novità che nel carnevale 1942-43 presentò, accanto a opere di repertorio, titoli quali Ariodante di Nino Rota,  Minnie la candida di Riccardo Malipiero, Antigone di Livio Liviabella, Il segreto di Susanna di Ermanno Wolf-Ferrari, Lo straniero di Pizzetti. E ugualmente eccezionali devono essere considerate tutte le rappresentazioni al Regio delle opere del compositore parmigiano, che nel frattempo si era trasferito dal Conservatorio di Firenze a quello di Milano, del quale fu direttore dal 1924 al 1936, per approdare infine a Roma, titolare dal 1936 al 1958 della cattedra di perfezionamento in composizione dell’Accademia di Santa Cecilia . 

Per quanto occasionali, le presenze di Pizzetti al Regio hanno sempre riscosso un franco successo: Fedra nel 1920, Fra Gherardo nel 1934, Lo straniero nel 1943, e poi, uscendo dal nostro ambito cronologico, La figlia di Iorio nel 1955 e Assassinio nella cattedrale nel 1968 e infine nel 2002.

Tuttavia la Parma teatrale del ventennio fascista non si esaurisce certo nella programmazione del suo teatro maggiore. Il teatro politeama intitolato al banchiere tedesco Oscar Reinach, che nel 1866 aveva elargito la somma poi utilizzata dal Comune per costruire il teatro, era divenuto da qualche anno proprietà di Lohengrin Campanini, dopo la morte a Chicago nel 1919 dello zio Cleofonte, che aveva acquistato il Reinach dal Comune per rilanciarlo nel 1913, in occasione del primo centenario verdiano. Ceduto da Lohengrin nel 1934, il teatro fu dato in gestione a una società di distribuzione cinematografica, seguendo la sorte comune a tanti teatri politeama. 

Ribattezzato infine Teatro Paganini nel 1939, a causa dell’origine ebraica del nome Reinach , il teatro riprese l’attività consueta fino al 1944, quando, il 13 maggio, venne distrutto nel corso dello stesso bombardamento aereo che colpì il Teatro Farnese e il Monumento a Verdi. Nei suoi oltre settant’anni di vita, il politeama di Parma era stato testimone di tutte le trasformazioni sociali e artistiche dello spettacolo in Italia, con il declino dell’opera, la sopravvivenza del teatro drammatico nelle sue varie forme auliche e popolari, il successo e la trasformazione del teatro musicale “leggero” (dall’operetta alla rivista), l’avvento e la supremazia del cinematografo (9). Ma la sua destinazione, in linea con la tipologia del politeama, fu assai più vasta, fino a coprire ogni possibile forma di rappresentazione o, comunque, di esibizione spettacolare, dalle più umili e popolari a quelle di tradizione aulica, secondo una logica di assimilazione che nell’evoluzione demagogica del regime fascista si fece via via più pressante dagli anni Trenta in poi.

Di quel processo di banalizzazione demagogica avrebbe fatto le spese anche la figura di Giuseppe Verdi, il quale – complice la radio (10), le cui trasmissioni ufficiali in Italia iniziarono nel 1924 e che ebbe un ruolo determinante nella rinascita di Verdi e del repertorio ottocentesco – venne poco a poco ad assurgere a modello assoluto di “musicista italiano”. Il suo caso, d’altra parte, si prestava assai bene all’operazione, poiché impersonava due miti funzionali al regime: da una parte il collegamento ideale con il Risorgimento, del quale Verdi era considerato un protagonista e del quale il fascismo si voleva porre come naturale conseguenza; dall’altra il modello del cittadino lavoratore e soprattutto del lavoratore legato alla terra. 

Un mito che coincideva perfettamente con l’immagine di Verdi “paesano delle Roncole” e poi di possidente terriero che si era consolidata negli ultimi decenni dell’Ottocento, con il beneplacito dello stesso Verdi. Si trattava di miti in parte forzati e artificiosi, ma che nel corso del Novecento si sarebbero affermati con forza inarrestabile. Non fu una coincidenza, ad esempio, che proprio negli anni della mussoliniana “Battaglia del grano” si iniziasse a enfatizzare la figura di Verdi come musicista antiintellettuale e pragmatico, con le mani e i piedi ben radicati nella propria terra: Verdi era non solo l’artista orgoglio della nazione, ma anche, e forse soprattutto, il contadino di Busseto. Verdi – che contadino non fu mai, come non lo furono i suoi genitori – si sarebbe trasfigurato nel “contadino eroe” nella prosa visionaria di Bruno Barilli:

Egli non è per buona sorte un missionario, ma un contadino eroe. Il suo alito ha un sano odor di cipolla e la sua voce è imperiosa, i suoi istinti pieni di veemenza primitiva. Egli ignora le parafrasi, s’intromette furiosamente,  taglia i nodi colla roncola, e fa scorrere lacrime e sangue esilaranti, piomba sul pubblico, lo mette tutto in un sacco, se lo carica sulle spalle e lo porta a gran passi entro i rossi, vulcanici dominii della sua arte (11).

Proprio quel sentimento di profondo attaccamento alla terra, cui rimandavano infallibilmente le immagini e le metafore del testo di Barilli, e di amore genuino per le umili origini avrebbe avuto negli anni successivi una crescita esponenziale, con la sottolineatura dell’identificazione di Verdi con la massa dei lavoratori e soprattutto, ancora una volta, con quelli della terra:

Italianità è dunque la bandiera della sua musica e come il trofeo delle sue persistenti vittorie. Questo compositore che per tutta la vita volle coltivare personalmente, ogni mattina, la terra del suo orto negli intervalli tra musica e musica, è il più diretto ed efficace rappresentante del genio guerriero che è proprio della gente italiana contadinesca ed elementare (12).

L’operazione mitopoietica finalizzata alla propaganda di regime avrebbe raggiunto l’apice all’inizio degli anni Quaranta, quando Mussolini in persona promosse le celebrazioni per i quarant’anni dalla scomparsa di Verdi. La circolare della Direzione Generale per il Teatro del 20 agosto 1940 annunciava agli enti autonomi dei teatri lirici:

Il Duce ha espresso il desiderio che la figura e le opere di Giuseppe Verdi siano messe maggiormente in luce nella vita musicale italiana. Poiché il 27 gennaio p.v. si compiono 40 anni dalla morte del grande maestro, si dispone che tutti gli enti che a quella data hanno in corso la normale stagione commemorino solennemente l’anniversario con l’esecuzione in tal giorno di un’opera verdiana (13).

Anche Parma, naturalmente, si uniformò alla direttiva, allestendo, nel gennaio-febbraio del 1941, una stagione interamente verdiana: una circostanza che non si era più ripetuta da quell’ormai lontano 1913, quando Cleofonte Campanini aveva celebrato al Regio e al Reinach il primo Centenario Verdiano, e dall’epoca ancora più remota, alla metà del secolo precedente, in cui Verdi monopolizzava i cartelloni dei teatri. La stagione – che includeva La traviata, Luisa Miller, Rigoletto, Il trovatore, Falstaff – fu aperta il 27 gennaio da un’orazione commemorativa tenuta da Ildebrando Pizzetti, nella sua veste ufficiale di Accademico d’Italia. Una veste di formale adesione al regime che era già costata al compositore la definitiva rottura del rapporto di amicizia con Arturo Toscanini.

L’organizzazione della stagione era affidata alla Associazione Turistica “Pro Parma”, la società nata nel 1901 con lo scopo di incentivare le attività commerciali del territorio promuovendo anche spettacoli musicali. Nel 1939 l’Associazione aveva avuto in affidamento la gestione triennale del Teatro Regio.

La circostanza non deve stupire, poiché si trattava in realtà di una prassi diffusa da secoli: fin da quando, cioè, l’opera aveva iniziato a costituire un motivo di attrazione finalizzato a un utile economico del quale avrebbe beneficiato un contesto assai più ampio rispetto a quello ristretto del teatro. A titolo di esempio, sulla base dello stesso principio, a Parma nel 1887, la prima locale dell’Otello di Verdi, con un cast di primissimo piano, fu realizzata nell’àmbito di una manifestazione agricola di grande rilievo economico in campo regionale: e di quella manifestazione l’Otello costituiva l’evento di maggiore attrazione. Lo stesso si può dire del variegato e imponente programma al cui interno fu realizzata la stagione del Centenario Verdiano del 1913: un contesto del quale il versante dell’arte e dello spettacolo e quello delle realtà sociali e produttive facevano parte in ugual misura, con pari dignità e, per così dire, sostenendosi a vicenda. E anche oggi, a ben vedere, sia pure a tanti anni di distanza, l’idea di un festival dedicato a Verdi non può che reggersi su un rapporto di mutuo scambio e sostegno tra l’occasione artistica e il territorio che la esprime. 

Nel 1941, tuttavia, la motivazione economica era destinata a passare in secondo piano, per quanto rilevante fosse il bilancio dell’iniziativa. Il preventivo di spesa della stagione – che comprendeva spettacoli d’opera e concerti da tenersi nel Teatro Regio e nella Sala Verdi del Conservatorio, nonché una mostra di cimeli verdiani allestita nel Ridotto del Teatro – ammontava a 810.000 lire, a fronte di introiti previsti di uguale entità, costituiti dal contributo degli Enti locali (340.000 lire) e del Governo (250.000 lire) e dal ricavo per i biglietti venduti (220.000 lire) (14). Non sono disponibili le cifre a consuntivo della stagione; ma, come accennato, il successo dell’iniziativa per una volta non si misurò in termini di resa economica, bensì di efficacia propagandistica, come le dichiarazioni ufficiali non mancarono di far rilevare con grande chiarezza. 

E l’attualità delle celebrazioni, vale a dire il motivo che aveva portato a celebrare una ricorrenza tanto insolita come il quarantesimo anniversario, veniva chiarita senza infingimenti. La scelta, che non per nulla era venuta dal capo del Governo, aveva lo scopo esplicito di chiamare a raccolta le glorie della nazione in un momento socialmente e politicamente difficile come quello che succedeva alla dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna. In quell’àmbito, il richiamo all’epopea risorgimentale e ai suoi miti, Verdi, in primo luogo, assumeva un valore simbolico quasi palpabile. Conviene citare per intero il testo introduttivo del programma:

È atto di doverosa e naturale gratitudine verso gli uomini grandi, il ricordare a tratti la vita loro, l’esaltarne l’opera, il ricercarne più ampi e nuovi significati, quale che sia stato il campo in cui il genio di essi Grandi rifulse. È di normale consuetudine, pertanto, la celebrazione ricorrendo i cinquant’anni o il secolo dalla morte o anche il millennio. La mente umana è cosiffatta che ha una speciale innata predilezione per ciò che va di simmetrico e di ricorrente, sicché nulla sembra più naturale di una celebrazione ricorrendo i cent’anni tondi dal momento in cui il celebrato passò all’immortalità.

Non si vuol negare che sullo spirito non abbia una speciale attrazione questo collimare di primavera a primavera, questo illusorio ritrovarsi dopo un lasso di venti o duecento lustri; pur se creazione artificiosa l’anniversario ha dunque una sua umana ragion d’essere. Perché dunque s’è voluto dal Duce che questa volta la consuetudine fosse tralasciata e s’avesse a celebrare il quarantennio della morte di Giuseppe Verdi? Cominciamo col dire che l’odierno attuarsi della celebrazione ci pare assai tempestivo, e geniale l’idea di celebrare Verdi. Gli è che una celebrazione può avere solo carattere artistico e finalità estetiche – ma questo è raro – e allora ogni data va bene; ma allorquando – come accade ora – al significato artistico si aggiunge quello della tempestività artistica, la celebrazione è, più che opportuna, necessaria.

Avviene a tutti gli individui, nei momenti di lotta della propria esistenza, di richiamarsi alle glorie e alle vittorie proprie; nello stesso modo la Nazione, nel corso della sua più lunga vita, sente talora il bisogno politico e artistico di volgersi a rimirare le sue più fulgide glorie, di saperle di fianco a sé nella lotta. Verdi, per questo, è l’uomo del Risorgimento Italiano che si affianca agli uomini della Rivoluzione Fascista.

Non ha certo sbagliato chi ha chiamato Verdi il principale e vero cantore del Risorgimento. I canti ed i cori del Nabucco, della Battaglia di Legnano, dei Lombardi, furono uno dei principali catalizzatori della rivoluzione del Risorgimento.

La musica verdiana interpreta e rivela l’anima del popolo, inteso questo come primo elemento della nazione. Se già la sola Traviata immortala Verdi come artista, nel Nabucco e nei Lombardi Verdi esprime le angoscie [sic], il dolore, le speranze del popolo soggetto allo straniero. Il popolo ha espresso Verdi e trova nelle opere del Maestro la propria coscienza e le proprie aspirazioni sublimate in musica, trova narrate le sue sofferenze, rivelati i suoi più intimi sentimenti, cantati i suoi entusiasmi. In più c’è la luce del genio. Per ciò Verdi è più che mai attuale in questo 1941 che vede l’Italia in aspra lotta contro la Gran Bretagna.

Egli è oggi fra noi, che stiamo combattendo per il primato d’Italia e per il suo certo destino imperiale. In questo nuovo più grande Risorgimento non può mancare Verdi; Verdi era ed è la musica italiana. Vogliamo risentire ancora le sue melodie, ritrovarci di essere, come Lui, italiani. Cento anni fa le sue opere esaltavano e spingevano alla liberazione dal giogo straniero, davano agli italiani la coscienza di “essere”, non solo in Europa, ma nel mondo: risentiamole ora con lo stesso spirito col quale le sentivano i nostri nonni. Le troveremo infinitamente attuali, freschissime, nuove. Potremmo crederle inedite e stupefacenti. Parma è fiera di saperlo suo figlio e si commuove nel ricordare la sincera e palese predilezione ch’egli ebbe per la nostra città. Documenti antichi e nuovi lo dimostrano ad usura e fra le stesse nostre mura i più vecchi lo rammentano con un’emozione ed un rispetto che sa di religione. Le celebrazioni che Parma allestisce con particolare solennità, pur rientrando nell’ambito del piano nazionale per la commemorazione della ricorrenza, vogliono anche avere un carattere di cordiale preminenza e di amorosa familiare esaltazione. Il culto delle opere verdiane arde incredibilmente nel Parmense, in ogni strato sociale. Il nostro Verdi vive oggi fra noi (15).

In quel frangente, come le frasi finali sancivano a mo’ di epigrafe, si era ormai definitivamente conclusa la lunga vicenda dei rapporti altalenanti tra la città e il compositore. Rapporti talvolta confl ittuali o, il più delle volte, improntati a sostanziale indifferenza nel corso dell’Ottocento e poi, dopo la morte nel 1901, a poco a poco sublimati nel mito di Verdi “figlio di Parma”. Negli anni Quaranta, finalmente, scrivendo dell’inclinazione musicale della città sul programma del 40°, Giuseppe Dovara, giornalista e critico musicale della «Gazzetta di Parma», poteva affermare senza tema di smentita:

Siamo nel “Paese del melodramma” come gustosamente Bruno Barilli ha definito la sua terra (16); siamo nel paese di Verdi amato appassionatamente non per spirito campanilistico, – ché Egli appartiene ormai all’Umanità – ma perché nessuno più di lui riesce, anche in pieno Novecento, ad interpretare i gusti, le aspirazioni, i sentimenti del popolo parmense, rude e generoso, ardente e battagliero, cavalleresco e impetuoso come un personaggio verdiano (17).

Di pari passo si consolidava il mito del Teatro Regio, del suo pubblico e soprattutto del suo loggione: un mito di franchezza e impetuosità del quale non si trovava traccia nel corso del secolo precedente. Era ancora Dovara che scriveva:

E tale si mostra ancora, specie in certe attese “prime”, il pubblico del Regio, specialmente quello che, dopo aver pazientemente atteso otto e dieci ore all’aria aperta, insofferente al freddo intenso e al pungolo dell’appetito sacrificato, occupa le file superiori del magnifico Teatro. Un pubblico notoriamente temibile, giacché, per quanto i tempi l’abbiano sensibilmente addomesticato e ingentilito, rendendolo conscio della rarefazione attuale di buoni cantanti e conseguentemente della necessità di non giudicare per confronti, non ha peli sulla lingua; e se ha qualcosa da esprimere non può trattenersi dal manifestarlo con la forza e la sincerità dell’istinto (18).

Rude e generoso, ardente e battagliero, cavalleresco e impetuoso erano le qualità che si volevano attribuire a Verdi – artista anti-intellettuale, uomo del Risorgimento e della sua terra – e attraverso di lui al popolo della terra della quale anche lui era finalmente il figlio legittimo e riconosciuto. Di quel connubio ormai indissolubile, ma libero dalle forzature della propaganda al servizio del regime fascista, si sarebbe alimentato anche nel dopoguerra il mito di Parma terra della musica.

NOTE

1. Su Furlotti si veda, ultimo omaggio in ordine di tempo, l’antologia di scritti Arnaldo Furlotti: il sigaro sullo spartito, a cura di G. Colla e G.N. Vetro, Parma, Tecnografica Editrice, 2004.

2. In particolare si segnalano le rappresentazioni al Teatro Regio dell’oratorio Judith, nel 1912 e nel 1924, e dell’opera La samaritana, nel 1920 e nel 1937.

3. G.S. [Giuseppe Silvani], F.T. Marinetti al Centrale, «Il Piccolo», 15 maggio 1923, p. 2.

4. Su questo argomento specifico si veda M. CAPRA, Il suono e la macchina. Aspetti e vicende del futurismo in musica, intervento alla giornata di studio FuturPRismi. Rifrazioni futuriste di centro e di periferia a cent’anni dal “Manifesto” di Marinetti, Parma, 20 febbraio 2009, ora in stampa.

5. G.F. MALIPIERO, I conservatori, «Il pianoforte», II, n. 12, 15 dicembre 1921, pp. 353-358.

6. I. PIZZETTI, L’infezione musicale ottocentesca. Lettera aperta a G. Francesco Malipiero, «Il pianoforte», III, n. 1, 15 gennaio 1922, pp. 7-10.

7. G.F. MALIPIERO, Risposta alla “Lettera aperta” di Ildebrando Pizzetti, «Il pianoforte», III, n. 2, 15 febbraio 1922, pp. 40-41.

8. Cfr. il resoconto di Giuseppe Silvani alla citata serata futurista del 1923: G.S. [Giuseppe Silvani], F.T. Marinetti al Centrale cit.

9. Sul Teatro Reinach si veda in particolare G.N. VETRO, Teatro Reinach: 1871-1944. Gli spettacoli musicali: opere, concerti, operette, Parma, Comune di Parma – Archivio Storico del Teatro Regio, 1995.

10. Cfr. V. OTTOMANO, Va’, pensiero sull’“onde” dorate: Verdi alla radio, intervento al convegno internazionale di studi Radio e musica: 1930-1950. Storia, effetti, contesti, Parma, 1-3 dicembre 2009.

11. B. BARILLI, Il paese del melodramma, Lanciano, Carabba, 1929.

12. L. D’AMBRA, La centuria di ferro. La pattuglia del genio italiano. N. 47. Giuseppe Verdi, Milano, Casa editrice Oberdan Zucchi s.a., 1936, p. 13.

13. Cit. da F. NICOLODI, Musica e musicisti nel ventennio fascista, Fiesole, Discanto, 1984, p. 24.

14. Cfr. Casa della Musica, Archivio Storico del Teatro Regio: Associazione Turistica “Pro Parma”, Al Podestà di Parma, Programma della ‘Celebrazione del 40° anniversario della morte di G. Verdi’, 24 settembre 1940.

15. Attualità delle celebrazioni verdiane, in Teatro Regio. XL anniversario della morte di Giuseppe Verdi, a cura di E. Corradi e A. Minardi, Parma, Associazione “Pro Parma”, 1941, pp. 15-17.

16. Il riferimento è ovviamente a Bruno Barilli e al suo Il paese del melodramma (cfr. nota 9).

17. G. DOVARA, Parma e la Musica, in Teatro Regio. XL anniversario… cit., p. 32.

18. Ivi, pp. 32-33

 
 
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