di Paolo Briganti
Diamo inizio – felicemente – al nostro excursus storico-letterario parmense degli anni 1927-1945 con Renzo Pezzani (Parma, 1898 – Castiglione Torinese, 1951) che, noto a Parma soprattutto quale poeta in dialetto, noi vogliamo invece proporre/riproporre in questa sede quale poeta in lingua. Tracce biografiche essenziali degli anni in questione: nella primavera del ’28, Pezzani fonda la casa editrice Le Muse (che vive un anno e mezzo); nel ’30 inizia a collaborare alla rivista «Boccadoro», di cui poi diviene direttore; nel 1940 è richiamato alle armi, ma ne è congedato dopo pochi mesi; nel 1941 abbandona definitivamente la casa editrice torinese SEI (per cui lavorava dal ’26) e intraprende, nel ’42, un’attività editoriale autonoma con le edizioni Il Verdone, fino al fallimento del ’45; nel 1945 svolge attività partigiana antifascista a Torino e dintorni, aderendo poi al Partito Comunista Italiano e collaborando a «L’Unità».
In questo arco temporale Pezzani pubblica numerose raccolte poetiche in lingua, almeno tre delle quali degne di particolare attenzione: Angeli verdi (1932), Belverde (1935) e Il fuoco dei poveri (1939). La diffusa ispirazione pascoliana è particolarmente evidente in Angeli Verdi (che sono poi gli alberi, i vegetali); si vedano esemplarmente le seguenti facili quartine di endecasillabi:
Elogio del giardino
Bastano poche aiuole; una rosella
che fiorisca improvvisa un bel mattino;
un geranio, un cespuglio di mortella
ed ecco fatto un piccolo giardino.
Circonda la mia casa, e un cancelletto
lo difende dal mondo più rapace.
Non è più grande del mio fazzoletto
eppure vi sta comoda la Pace.
Le stagioni lo fanno colorito
come il paffuto volto d’un bambino:
ma lo lasciano poi solo e svestito
a non mostrar di sé che zolla e spino.
Di primavera è tutto una primizia,
un canestro di doni che risplende
di gioia; una barriera che contende,
se mai s’affacci, il passo alla malizia.
Questo componimento è anche un manifesto implicitamente antidannunziano (entro un più ampio understatement crepuscolarizzante), con l’elogio – di lunga ascendenza classica – della vita rustica, appartata, semplice e modesta: non la natura aperta e sconfinata di campi e boschi, ma una riduzione semiurbana (o suburbana) moderna – pascoliana e crepuscolare – al giardino, cioè al minimo ritaglio rustico dentro le mura cittadine, o in prossimità d’esse, il francobollo di terra che conserva (o simula) la vita della/con la natura e, contemporaneamente, difende tutt’intorno «dal mondo più rapace». Vi si legge l’enunciazione esplicita della “conclusione” protettiva («circonda la mia casa»), di preciso stampo pascoliano: quando viene primavera, diventa «una barriera che contende, / se mai s’affacci, il passo alla malizia». La malizia: cioè la minaccia capitale dell’innocenza. Già: se dovessimo indicare una parola-chiave per Pezzani, questa è proprio l’innocenza, una parola rischiosa e impegnativa per un poeta contemporaneo, una parola che lui invece usa senza remore, “ingenuamente”. Ma l’ingenuità, che è il contrario della malizia, è appunto un tratto che rivela l’innocenza in atto o una condizione che ad essa conduce. Agnello (da Belverde, 1935) è, in questo senso, il testo dell’innocenza nella sua più fiduciosa e ingenua, ma insieme sottilmente dolorosa, esposizione.
Agnello
Nessuno ti pettina i ricci,
nessuno ti bacia sul muso,
la mamma è partita dal chiuso,
sei piccolo e senza capricci.
L’erbetta più tenera e fine
la cerchi nel prato da te;
si sente tremare il tuo bee
per vaste pianure e colline.
Per quel campanello che scuoti
le valli non sono più mute;
la terra imbandita di rute
riporti ad incanti remoti.
Guidato a più libera altura
tra boschi, torrenti e perigli,
mio piccolo agnello somigli
un poco di neve che dura.
E se questo sole d’aprile
sciogliesse te in limpido corso,
il mare sarebbe il tuo ovile
ma io vorrei berti d’un sorso;
portarti, innocenza, con me,
al suono del tuo campanello
mio piccolo, bianco fratello
che preghi il Signore col bee.
L’agnello, immagine cristiana per eccellenza (è la figura cristologica dell’agnus dei purificatore), diviene qui proprio un tenero agnellino che vaga da solo senza alcun timore (perché, ingenuo, non conosce i pericoli e nella sua ingenuità è inattaccabile) per pianure e colline, facendole risuonare del campanello che porta al collo: all’inizio è una figurina da libro di prima elementare, da poesiola per bimbi (un po’ saltellante nei ritmici novenari del componimento), ma l’ultimo verso della terza strofa segnala già qualcosa in più, cioè il potere di riportare il mondo circostante a «incanti remoti» (gli incanti lontani dell’infanzia, dell’uomo e del mondo). Questo agnello invero è così contemplabile solo da una coscienza “adulta”, di chi conosce cioè la distanza, la separazione dall’incanto, la perdita; e proprio quella perdita vorrebbe colmare, bevendo alla fonte dell’innocenza, rappresentata dall’“agnello-fiocco di neve-acqua lustrale” (l’agnello ricorda infatti al poeta «un poco di neve che dura», in attesa d’essere sciolta dal «sole d’aprile»). L’autore esprime del resto a chiare lettere la propria aspirazione – «ma io vorrei berti d’un sorso» –, di intensità tanto acuta nel modulo desiderativo (sintatticamente quasi a sé: «portarti, innocenza, con me») da risultare persino dolorosa; pur placandosi nell’explicit degli ultimi tre versi, col ritorno all’agnello che rivolge il proprio belato/preghiera al Signore.
Nella raccolta Il fuoco dei poveri (1939) c’è una poesia, Scuola di campagna, straordinaria per equilibrio fra candore infantile e adulta consapevolezza del tempo trascorso, struggente e delicata, malinconica e piena d’amore, certamente fra le cose migliori di Pezzani. Si tratta di sette quartine di semplicissimi novenari pascoliani, in rima ora incrociata ora alterna, col vezzo soltanto di qualche minimo e raro enjambement; quartine che racchiudono interminabili profondità di nostalgia in un dettato limpido, semplicissimo ma non “pargoleggiante”.
Scuola di campagna
È fuori dal borgo due passi
di là del più fresco ruscello
recinta di muro e cancello
la piccola scuola di sassi.
Agnella staccata dal branco
col suono che al collo le han messo
richiama ogni bimbo al suo banco
nell’aula che odora di gesso.
C’è ancora la vecchia lavagna
con su l’alfabeto mal fatto:
lo scrisse un bambino distratto
dal verde di quella campagna.
E lei, che mi vide a sei anni,
c’è ancora. La voce un po’ fioca,
vestita d’identici panni,
la vecchia signora che gioca.
C’è ancora il vasetto d’argilla
che m’ebbe suo buon giardiniere;
è verde, fiorito di lilla,
e un bimbo gli porta da bere.
Il tempo passò senza lima
su queste memorie. Ritorno
lo stesso bambino d’un giorno
sereno, nell’aula di prima.
E in punta di piedi, discreto,
nell’ultimo banco mi metto
e canto, nel dolce coretto
dei bimbi, l’antico alfabeto.
Il poeta rivede con gli occhi della mente, ma quale viva immagine, la piccola scuola di campagna d’un tempo, appena fuori dall’abitato, di là da un ruscello di percepibile freschezza: implicitamente bianca, è come un’agnella (iterata figura dell’innocenza e della purezza) che, separata dal resto del gregge, fa risuonare la propria campanella; così la scuoletta-agnella richiama i bimbi ai loro banchi. Dalla terza strofa il poeta è come una presenza non vista, che spia dai vetri della sua vecchia scuola e rivede ogni cosa, come allora, immutata. Anche la maestra di allora, proprio lei, è (quasi) immutata: se ha «la voce un po’ fioca» è però «vestita d’identici panni» (la scuola elementare si offre alla memoria come illeso eden infantile, ahimè perduto, di “gioco” spensierato). Il revenant considera che «il tempo passò senza lima / su queste memorie. Ritorno / lo stesso bambino d’un giorno / sereno nell’aula di prima» (e qui anche Gozzano un poco c’entra in quel “ritorno…” così sospeso sul vuoto della fine del verso). Nella vecchia scuola di campagna il tempo s’è come fermato e il poeta, scolaro d’allora (eh, per lui invece gli anni sono inesorabilmente, dolorosamente trascorsi!), non visto, può tornare per un momento bambino e, magia della poesia, può unirsi, seduto nell’ultimo banco, al «dolce coretto / dei bimbi» e cantare «l’antico alfabeto». Un gioiello, un vero gioiello, un sogno ad occhi aperti in stato di grazia poetica assoluta.